In un recente video pubblicato sui social, Giorgia Meloni ha definito la riforma sul premierato come “la madre di tutte le riforme”.
Un’espressione un po’ azzardata ed eccessivamente pomposa per quello che si presenta come un pasticcio che mescola elementi inglesi e tedeschi in salsa profondamente meloniana.
La riforma, ha detto Meloni, “introduce l’elezione diretta” del Presidente del Consiglio, il cui incarico è fissato per cinque anni.
Essa, secondo le leader di FdI, garantirebbe “due grandi obiettivi”: da un lato, “il diritto dei cittadini a decidere da chi farsi governare, mettendo sostanzialmente fine alla stagione dei ribaltoni, alla stagione dei giochi di palazzo, alla stagione del trasformismo, delle maggioranze arcobaleno e dei governi tecnici”; dall’altro lato, la “stabilità del governo”, perché “chi viene scelto dal popolo” avrà “cinque anni per realizzare il proprio progetto”.
Inoltre, secondo Meloni, sarebbero preservate “al massimo grado le prerogative del Presidente della Repubblica”.
La realtà, purtroppo per Meloni, è molto diversa.
Innanzitutto, non è corretto affermare che i cittadini sceglieranno chi sarà il Presidente del Consiglio per l’intera legislatura. Il candidato vincitore dovrà governare ma, nel caso in cui non fosse possibile, la sua sostituzione potrebbe anche avvenire dopo poco tempo. La riforma, infatti, prevede che, in caso di dimissioni, impedimento o sfiducia delle Camere, il capo del governo in carica “possa essere sostituito solo da un parlamentare della maggioranza e solo al fine di proseguire nell’attuazione del medesimo programma di governo”. È il cosiddetto “meccanismo anti-ribaltone”.
In sostanza, gli elettori “sceglieranno da chi farsi governare” soltanto al momento del voto. La maggioranza vincitrice potrà decidere di sfiduciare il Presidente in ogni momento e per qualsiasi motivo, anche sulla base di logiche competitive tra gli stessi leader presenti all’interno di una comune maggioranza.
Tra l’altro, l’elezione diretta del Premier non rafforza assolutamente il governo, visto che continua a persistere un sistema parlamentare in cui prevale la fiducia delle Camere (e da qui la necessità di tutelarsi con il suddetto meccanismo anti-ribaltone). Anche il potere sui ministri, resta lo stesso.
La riforma meloniana, poi, introduce una sorta di “doppia fiducia”, in quanto la legittimazione del Presidente, ottenuta tramite elezione diretta, è seguita dal voto parlamentare. Un controsenso, se si pensasse al fatto che tale provvedimento è stato pensato e scritto da quella stessa maggioranza di centrodestra che da anni predica la superiorità della “legittimazione popolare”. Cosa accadrebbe, ad esempio, se le Camere dovessero negare la fiducia ad un Premier “eletto dal popolo”?
Infine, i poteri del Capo dello Stato verranno seriamente ridimensionati. Il Quirinale avrà il potere di “conferire l’incarico” al premier votato dai cittadini, e non più di nominarlo. Di conseguenza, il conferimento si baserà sulla presa d’atto del risultato elettorale e non sulla discrezionalità del Presidente, il quale valuta diverse situazioni prima di conferire l’incarico. Una cosa che inciderà anche sulla capacità del Colle di gestire le periodiche crisi di governo che caratterizzano il nostro Paese.
Molto fumoso è anche il passaggio in cui il governo si impegna ad attuare “solo” il programma del Premier eletto. Un paletto che potrebbe potenzialmente portare alla sostituzione del capo del governo. Un impedimento di questo tipo non tiene conto nè delle emergenze che, di volta in volta, un esecutivo è tenuto ad affrontare nè tantomeno di temi legati al semplice fatto che un’azione di governo è tenuta ad essere in linea con una realtà in rapida trasformazione.
Un discorso a parte meriterebbe il premio di maggioranza, assegnato su base nazionale, che assicuri al partito o alla coalizione di partiti collegati al Presidente del Consiglio il 55% dei seggi parlamentari, “in modo da assicurare la governabilità”. Qualcosa che penalizzerebbe, anzi azzererebbe totalmente, il principio democratico di rappresentatività del Parlamento stesso.
Insomma, più che di pericolosa “deriva autoritaria” – una cosa che ho letto spesso sui giornali in questi giorni – la riforma del premierato del governo Meloni sarebbe soltanto l’ennesimo pasticcio, il quale questa volta, però, andrebbe ad intaccare direttamente la nostra Carta Costituzionale, producendo danni inimmaginabili alla nostra democrazia.
Gianni Leggieri, consigliere regionaleIn un recente video pubblicato sui social, Giorgia Meloni ha definito la riforma sul premierato come “la madre di tutte le riforme”.
Un’espressione un po’ azzardata ed eccessivamente pomposa per quello che si presenta come un pasticcio che mescola elementi inglesi e tedeschi in salsa profondamente meloniana.
La riforma, ha detto Meloni, “introduce l’elezione diretta” del Presidente del Consiglio, il cui incarico è fissato per cinque anni.
Essa, secondo le leader di FdI, garantirebbe “due grandi obiettivi”: da un lato, “il diritto dei cittadini a decidere da chi farsi governare, mettendo sostanzialmente fine alla stagione dei ribaltoni, alla stagione dei giochi di palazzo, alla stagione del trasformismo, delle maggioranze arcobaleno e dei governi tecnici”; dall’altro lato, la “stabilità del governo”, perché “chi viene scelto dal popolo” avrà “cinque anni per realizzare il proprio progetto”.
Inoltre, secondo Meloni, sarebbero preservate “al massimo grado le prerogative del Presidente della Repubblica”.
La realtà, purtroppo per Meloni, è molto diversa.
Innanzitutto, non è corretto affermare che i cittadini sceglieranno chi sarà il Presidente del Consiglio per l’intera legislatura. Il candidato vincitore dovrà governare ma, nel caso in cui non fosse possibile, la sua sostituzione potrebbe anche avvenire dopo poco tempo. La riforma, infatti, prevede che, in caso di dimissioni, impedimento o sfiducia delle Camere, il capo del governo in carica “possa essere sostituito solo da un parlamentare della maggioranza e solo al fine di proseguire nell’attuazione del medesimo programma di governo”. È il cosiddetto “meccanismo anti-ribaltone”.
In sostanza, gli elettori “sceglieranno da chi farsi governare” soltanto al momento del voto. La maggioranza vincitrice potrà decidere di sfiduciare il Presidente in ogni momento e per qualsiasi motivo, anche sulla base di logiche competitive tra gli stessi leader presenti all’interno di una comune maggioranza.
Tra l’altro, l’elezione diretta del Premier non rafforza assolutamente il governo, visto che continua a persistere un sistema parlamentare in cui prevale la fiducia delle Camere (e da qui la necessità di tutelarsi con il suddetto meccanismo anti-ribaltone). Anche il potere sui ministri, resta lo stesso.
La riforma meloniana, poi, introduce una sorta di “doppia fiducia”, in quanto la legittimazione del Presidente, ottenuta tramite elezione diretta, è seguita dal voto parlamentare. Un controsenso, se si pensasse al fatto che tale provvedimento è stato pensato e scritto da quella stessa maggioranza di centrodestra che da anni predica la superiorità della “legittimazione popolare”. Cosa accadrebbe, ad esempio, se le Camere dovessero negare la fiducia ad un Premier “eletto dal popolo”?
Infine, i poteri del Capo dello Stato verranno seriamente ridimensionati. Il Quirinale avrà il potere di “conferire l’incarico” al premier votato dai cittadini, e non più di nominarlo. Di conseguenza, il conferimento si baserà sulla presa d’atto del risultato elettorale e non sulla discrezionalità del Presidente, il quale valuta diverse situazioni prima di conferire l’incarico. Una cosa che inciderà anche sulla capacità del Colle di gestire le periodiche crisi di governo che caratterizzano il nostro Paese.
Molto fumoso è anche il passaggio in cui il governo si impegna ad attuare “solo” il programma del Premier eletto. Un paletto che potrebbe potenzialmente portare alla sostituzione del capo del governo. Un impedimento di questo tipo non tiene conto nè delle emergenze che, di volta in volta, un esecutivo è tenuto ad affrontare nè tantomeno di temi legati al semplice fatto che un’azione di governo è tenuta ad essere in linea con una realtà in rapida trasformazione.
Un discorso a parte meriterebbe il premio di maggioranza, assegnato su base nazionale, che assicuri al partito o alla coalizione di partiti collegati al Presidente del Consiglio il 55% dei seggi parlamentari, “in modo da assicurare la governabilità”. Qualcosa che penalizzerebbe, anzi azzererebbe totalmente, il principio democratico di rappresentatività del Parlamento stesso.
Insomma, più che di pericolosa “deriva autoritaria” – una cosa che ho letto spesso sui giornali in questi giorni – la riforma del premierato del governo Meloni sarebbe soltanto l’ennesimo pasticcio, il quale questa volta, però, andrebbe ad intaccare direttamente la nostra Carta Costituzionale, producendo danni inimmaginabili alla nostra democrazia.
Gianni Leggieri, consigliere regionale