Nei giorni scorsi Mike Manley AD FCA ha annunciato che il piano di investimenti per l’Italia sarà adeguato alla luce dell’ecotassa. È evidente che si sta cercando di scaricare sul Governo gli errori commessi dall’azienda ed è singolare vedere che pur di attaccare l’azione di Governo, alcuni sindacalisti e alcuni politici lucani si uniscano alla dirigenza FCA.
Citiamo alcuni dati in modo da capire le reali motivazioni della flessione di FCA. FCA è risultata in flessione del 10,37% rispetto al 2017 (502 mila registrazioni nel 2018 contro le 560 mila del 2017), anche a causa dell’invecchiamento di una parte della gamma prodotto. Una miscela di ingredienti che ha prodotto un risultato inevitabile e che poco ha a che fare con le politiche governative: il calo del 6,8% della produzione delle fabbriche italiane di FCA. Se si considerano le sole auto e non i veicoli commerciali, poi, allora il crollo è del 10,2%.
Ricordiamo, per fotografare la situazione, anche la fine della fabbricazione della Punto nello stabilimento di Melfi (andata fuori produzione lo scorso luglio) e la dismissione dell’Alfa Romeo MiTo che, in termini di volumi, hanno peggiorato ulteriormente il quadro.
Il rinvio di alcuni investimenti nel corso del 2017 e il ritardo nel lancio di nuovi prodotti ha poi avuto un impatto negativo sull’obiettivo della piena occupazione, che infatti non è stato raggiunto.
In merito all’ecobonus che FCA contesta come causa principale della flessione, a fronte di tutti questi elementi risulta quanto meno singolare che oggi i vertici di FCA imputino unicamente all’introduzione, peraltro corretta, della norma sulle emissioni, un’eventuale necessità di revisione del piano industriale stesso.
Va infatti considerato che le nuove regole Ue impongono a tutte le case automobilistiche di ridurre le emissioni di carbonio del 37,5% tra il 2021 e il 2030. A partire da questo elemento, le case automobilistiche avrebbero dovuto mettere in campo revisioni corpose dei propri piani produttivi, mettendo a punto sistemi di riconversione degli stabilimenti che impattino il meno possibile sui lavoratori. La sostanza è che Fca è in ritardo rispetto ai suoi concorrenti ed è senza modelli con motorizzazioni ibride o elettriche sul mercato.
È necessario colmare rapidamente il gap sul fronte dei veicoli elettrici che si è creato con gli altri competitor internazionali. Auspico che si passi dagli annunci ai fatti concreti evitando frettolose retromarce come avvenuto nel recente passato con il progetto “Fabbrica Italia”.
Per quanto riguarda lo stabilimento lucano di Melfi voglio ricordare che FCA, a fronte dell’ennesima contrazione di mercato, nei mesi scorsi ha comunicato ai propri dipendenti che gli esuberi nello stabilimento sono passati da 1640 a 3297 e che i lavoratori interessati ai contratti di solidarietà sono passati da 5857 a 6868 su circa 7.400 complessivi, con un aumento di giornate di astensione dal lavoro medio individuale dal 28% al 48%, accompagnato da una altrettanto drastica decurtazione del salario. Il regime di andrà avanti fino al 31 gennaio 2019, ma sicuramente sarà prolungato per parecchi mesi dell’anno prossimo.
Andare in produzione con le nuove vetture tra più di un anno, perché questi sono i tempi previsti, necessita da parte delle istituzioni un monitoraggio costante e puntuale per evitare perdite di posti di lavoro soprattutto nell’indotto, che ha subito e subisce maggiormente la mancanza di certezze sul futuro produttivo dello stabilimento di Melfi.
Non sarebbe opportuno riportare la produzione delle utilitarie negli stabilimenti italiani, come è sempre avvenuto nella storia della casa automobilistica torinese, dando in questo modo maggiori certezze sul proprio futuro ai lavoratori, in particolare anche a quelli di Melfi?
Gianni Leggieri
Consigliere Regionale M5S Basilicata